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Dresden Dolls - Yes, Virginia

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Lunedě, 21 Maggio 2007

A cura di Federico Sabatini





A
rtista: Dresden Dolls
Album: Yes, Virginia…
Etichetta: Roadrunner Records

La combinazione di matura tragicità e di purezza infantile, già presente nel nome del duo di Boston (le bellissime bambole di porcellana prodotte a Dresda all’interno del periodo di splendore rococò e di suggestioni artistiche e decadenti che la città visse prima di essere completamente rasa al suolo nel 1945) torna anche in questo album, caratterizzato infatti dal solito humour grottesco e deliziosamente immaturo, e da quelle che si presentano come riflessioni sulla tragica condizione dell’uomo attuale. Non è cambiato molto nello stile della band, sempre fortemente caratterizzato da un travolgente impatto visivo che non riesce a non sedurre lo sguardo di chi incontra per caso un loro video in tv o li ritrova fotografati in una rivista di musica o, forse, anche di moda. Il look malizioso e drammatico è fortemente ispirato alla Repubblica di Weimar e ai fasti della sua tradizione teatrale fatta non solo di performer strabilianti e talentuosi, ma anche di guepière strettissime di pizzo e reggicalze, scarpette lucide sopra calze a righe orizzontali, trucco pesante che incornicia occhi che diventano sempre più grandi e disorientati, labbra scure e insieme scintillanti, giacche corte e barocche decorate con spille e pennacchi, gonne di broccato e cappelli a bombetta pronti ad essere sventolati a ritmo di musica. Allo stesso tempo, Amanda Plummer e Brian Viglione indossano anche accessori che sembrano usciti direttamente dal guardaroba dei Sex Pistols firmato Vivienne Westwood (camicie a rete strappate e spille da balia, anfibi sopra calze a rete e trucco pesante e sbaffato sulle labbra) e definiscono la loro musica come “brechtian punk cabaret”. Lontano dal “gotico”, categoria ormai svuotata di senso per la Plummer, lo stile è da loro descritto come un’intelligente mescolanza di punk rock e Kurt Weill, fortemente influenzato dal teatro di Bertold Brecht e dal movimento dadaista. L’album di esordio, Dresden Dolls, dosava tali ingredienti con accuratezza e faceva davvero pensare ad un progetto di estrema originalità, fondato su di una ricerca estetica ma anche su di una sperimentazione nei contenuti musicali e testuali. Yes, Virginia prosegue senza dubbio il discorso estetico e approfondisce la commistione di teatro, vaudeville e rock, ma dal punto di vista musicale non vi è nulla di davvero sorprendente. L’album prende il nome da una lettera al New York Times del 1897 in cui l’editore rispondeva positivamente ad una bambina, Virginia, circa l’esistenza di Santa Claus. Amanda Plummer scrive dunque testi che esplorano i misteri e i mali della società moderna attraverso il punto di vista infantile e stupito che può assumere una bambina davanti a drammi molto più grandi di lei. Come nel primo brano dell’album, Sex Changes, in cui ci si interroga sul cambiamento di sesso e sulle conseguenze psicologiche sperimentate da chi compie una scelta di questa portata. Il titolo gioca sull’ambivalenza semantica dell’espressione, la quale indica sia i “cambiamenti di sesso”, sia il fatto che “il sesso cambia” e influenza le coscienze. La canzone è un classico pezzo punk, orecchiabile e a suo modo romantico, anche se forte è la percezione che la conoscenza dell’argomento sia fortemente limitata e derivi solo da suggestioni di costume e di cultura superficiale fornite da canzoni pop (la citazione “Boys will be girls”, ripetuta ossessivamente, deriva dal famoso pezzo Girls and Boys dei Blur, forse più semplicistico ma certamente più diretto e incisivo), film (“girls will be boys that don’t cry”, come il film a tematica transgender che ha lanciato Hilary Swank), articoli di giornale o, nel caso peggiore ma certamente plausibile, da fumose conversazioni nei pub, di quelle condotte per riempire il tempo tra un drink e l’altro, ridendo e scherzando insieme agli Alcoholic Friends , i quali non a caso sono i protagonisti del brano omonimo. Si tratta di una piacevolissima canzone melodica che sa di folkloristico austro-ungarico, il cui ritmo contratto e accattivante evoca tempi passati e solari, salvo poi contraddirsi volutamente nel testo, il quale affronta il tema del suicidio da una prospettiva volontariamente superficiale, assumendo un tono umoristico e grottesco che potrebbe infastidire molte persone, soprattutto coloro i quali hanno conosciuto più da vicino tale argomento. Gran parte del disco è dedicato alla rappresentazione, teatrale e a volte solo “teatralizzata”, di una serie di donne sole, maledette e disperate, partendo da First Orgasm (ballata che narra le masturbazioni mattutine di una donna che sceglie di stare da sola e che in realtà vorrebbe un uomo), fino a Mrs O (donna ottimista che non crede né all’olocausto, né a Hitler, né a Chernobyl, tanto per citare a caso “alcuni” dei temi che la canzone condensa in sè), per arrivare poi alla ballata straziante per sola voce e piano Delilah, nome di una ragazza definita “unrescuable skizo” che compie tutta una serie di azioni che la rendono ingiustificatamente un’eroina tragica: cambiare il mondo “aprendo le gambe”, spacciarsi per bipolare per attirare su di sé attenzione e affetto, oppure, come accadrà in Dirty Business, “lasciare preservativi usati al bordo del letto” per far ingelosire l’amante di turno. Questo è il brano più rock dell’album, in cui il fastidio per la storia di questa ragazza che brinda compiaciuta a tutte le persone che la odiano (“to all the ones who hated me the most a toast”), viene superato in nome della potenza melodica dell’arrangiamento (in cui si dà spazio alla batteria di Viglione) e di una musica davvero penetrante, misto di rock sofferto e pianoforte vibrante sulle cui note Amanda Plummer sprigiona un cantato a tratti violento, a tratti dolcissimo o addirittura sgradevolmente dissonante, riuscendo a dispiegare la sua notevole estensione e la vasta gamma di registri vocali di cui è maestra e di cui si compiace senza falsa modestia: “singing at the top of my lungs” (come afferma nell’intimissima Me and the Minibar, ennesima canzone sulla solitudine disperata della donna). I momenti più felici del disco sono quelli in cui l’aspetto più cabarettistico dello stile prende il sopravvento, come in Modern Moonlight, Mandy Goes to Med School, e nell’ultima canzone – primo singolo estratto – Sing. In queste, tutte costruite su di una scala continua di crescendo e decrescendo armonici, il talento vocale e strumentale della Plummer è spinto all’estremo, sovrapponendo momenti di acuta drammaticità ad altri di assoluto silenzio che aprono al vero climax dei brani. In questi, specie in Mandy Goes to Med School, il virtuosismo al piano è talmente elevato che, ascoltandolo, sembra davvero di vedere uscire dai tasti file e file di ballerine in guepière e corsetti di paillettes sotto linee interminabili e rutilanti di luci ad intermittenza. Questa la magia del gruppo di Boston, il quale, nonostante i forti limiti contenutistici e la certezza di essere uno dei tanti gruppi frutto di un’acutissima operazione di marketing, dimostra almeno di poter contare su di due musicisti di gran valore. I riferimenti all’estetica brechtiana dovrebbero certo essere ridimensionati e forse più calzante sarebbe un paragone con “The Golden Age of Grotesque” di Marilyn Manson, il quale proprio dell’estetica della Repubblica di Weimar si era appropriato al tempo dell’album. Anche parlare di female rock può risultare altisonante se si pensa alle grandi cantanti rock (P.J. Harvey, Bjork e soprattutto Tori Amos a cui la Plummer è stata spesso avvicinata in virtù dei virtuosismi al piano) che fanno della loro estetica parte integrante del contenuto del loro messaggio musicale. Quella dei Dresden Dolls non è infine nemmeno “un’opera da tre soldi”, come lasciano intendere le immagini di teatri decadenti o distrutti con i quali hanno lanciato l’enorme campagna pubblicitaria: si tratta di un’opera ben congegnata, realizzata da eccellenti architetti dell’immagine. Gli stessi che hanno disegnato le colossali scenografie del megatour americano True Colors (attualmente in corso), in cui i Dresden Dolls irretiscono milioni di fan insieme a due artiste – anch’esse grandi ma altrettanto in decadenza – come Debbie Harry e Cindy Lauper. Uno spettacolo ricchissimo e fastoso, che poco ha a che fare con il punk o con il cabaret di Marlene Dietrich, ma che, prendendo un po’ da entrambi, assicura uno spettacolo memorabile.

 
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DISCOGRAFIA

Album
A is for Accident
(2003)
(Eight Foot)
The Dresden Dolls
(2005)
(Eight Foot)
Yes, Virginia...
(2006)
(Roadrunner)


Singoli/EP
Coin-operated boy (2004)
(Roadrunner)


DRESDEN DOLLS

Dresden Dolls


Altre informazioni su: http://www.dresdendolls.com//




Fonti internet
http://mmeiser.com/blog/
 
 
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